Ciao!
In questi anni il mondo del lavoro è cambiato tantissimo.
Dopo la pandemia le persone hanno cominciato a prestare sempre più attenzione al proprio benessere. Di conseguenza, la felicità sul posto di lavoro è diventato un tema importantissimo.
Così importante da rivoluzionare l’organizzazione di intere strutture aziendali.
Hai masi sentito parlare del ruolo di Chief Happiness Officer?
Abbiamo intervistato Daniela Donati, Chief Happiness Officer & HR business partner di Ideal Standard.
Oltre a spiegarci cosa fa nello specifico, Daniela ci ha anche fornito spunti interessanti sul legame Smart Working e benessere personale sul lavoro.
Di seguito ti riporto l’intervista completa. Come al solito, buona lettura!
- Ciao, ti va di presentarti brevemente?
Dopo una lunga esperienza come consulente aziendale e alcune esperienze come HR Manager di PMI, ho recentemente assunto il ruolo di HR Business Partner in Ideal Standard dove porto il mio contributo anche come Chief Happiness Officer (CHO) esperta di temi legati alla felicità al lavoro.
- chi è il CHO e quale è il suo ruolo in azienda?
Il ruolo del Chief Happiness Officer è fondamentalmente quello di facilitare la trasformazione culturale di un’organizzazione verso il modello delle Positive Organizations, un ecosistema che integra le pratiche volte ad aumentare il senso del benessere al lavoro nei diversi processi aziendali con il risultato di aumentare la felicità delle persone (intesa in senso eudaimonico, ovvero come perseguimento di un purpose personale e aziendale) e al contempo migliorare i risultati di business.
- Perché il tema della felicità al lavoro è diventato più rilevante rispetto al passato?
Credo che la pandemia abbia accelerato un processo già partito in precedenza, a cui le nuove generazioni soprattutto han dato un significativo impulso con la loro richiesta di assicurarsi in primis l’equilibrio vita lavoro e, non meno importante, l’esigenza di trovare un posto di lavoro che permetta loro di esprimere il proprio talento.
Per non parlare del tabù del posto fisso e “per sempre” che sembra, se non definitivamente caduto, sicuramente meno rilevante nelle scelte. E fortunatamente anche il paradigma “comanda e controlla” sembrerebbe avere sempre più i giorni contati.
- Come si lega la felicità al lavoro con la flessibilità data dallo smart working?
Il tema della flessibilità non può prescindere dalla cultura della fiducia, della responsabilizzazione, dell’autogoverno e soprattutto del rispetto delle esigenze della persona che sono sicuramente cardini della scienza della felicità applicata al lavoro.
- Che policy smart / remote working avete in Ideal Standard e come mai avete deciso di applicarla?
In Ideal Standard il tema della fiducia è vissuto al punto che non esistono più le timbrature e c’è massima libertà di organizzarsi il proprio tempo tenendo ben presente che si sarà valutati per i risultati che si porteranno e non per il tempo in cui li si è prodotti.
La possibilità di lavorare da remoto era già attuale prima dell’insorgere della pandemia: al fine di agevolare il work-life balance e migliorare la produttività e l’efficienza aziendale con la promozione della cultura delle performance, era stato avviato un primo pilota nel 2017, confermato un anno dopo.
Oggi abbiamo una policy che prevede un massimo di 3 giorni alla settimana di smart working o in alternativa 12 giorni al mese (distribuendoli secondo le proprie esigenze, d’accordo col proprio Manager e a seconda delle specificità del proprio ruolo) e nei mesi estivi la possibilità di lavorare da remoto per un periodo di 3 settimane consecutive al mese.
- Quali sono secondo te i vantaggi di lavorare in modo smart?
Senz’altro il maggior vantaggio riguarda la possibilità di lavorare secondo i propri ritmi, ridurre lo stress per chi deve viaggiare per raggiungere il luogo di lavoro, avere più tempo da condividere con i propri affetti. Ma oltre a questi aspetti, credo che possa esserci anche la gratificazione del sentirsi degni di fiducia da parte del proprio
Manager e dall’azienda tutta.
- E quali i punti di attenzione?
Se è più facile intuire i vantaggi, soprattutto a livello individuale, temo che presi dal senso quasi di liberazione per un terreno finalmente conquistato, si sia prestata meno attenzione proprio al rovescio della medaglia che, dal mio punto di vista, riguarda l’impatto che lo smart o remote working ha e sta avendo su alcuni elementi della cultura aziendale: la costruzione del capitale sociale in primis, la creatività che si sviluppa anche attorno a una macchinetta del caffè da uno imprevisto scambio di idee, la collaborazione e soprattutto il senso d’appartenenza.
L’impatto maggiore lo vedo sulle persone nuove che entrano in azienda che faranno più fatica ad integrarsi e a cogliere quei segni intangibili della cultura aziendale.
E chissà che un giorno, magari lavorando in spazi di co-working extra aziendali, le persone finiranno per sviluppare maggior senso d’appartenenza verso quella non-sede di lavoro e quei non–colleghi con i quali forse inizieranno a ripristinare proprio quelle dinamiche che in azienda rischiano di scomparire.
- Quali sono i pillar per costruire una cultura del benessere in azienda?
Partirei dalla definizione di ruoli costruiti sulle esigenze aziendali e sulla valorizzazione dei talenti tenendo a mente che il benessere in azienda passa anche dalla possibilità di fare un lavoro in cui sentire di potersi esprimere, di poter dare il proprio contributo in armonia con il proprio purpose e con la condivisione dei valori aziendali.
Un pillar fondamentale è costituito dalla cultura del feedback che comprende la cultura dell’errore, e inoltre la valorizzazione del capitale sociale, la promozione cioè di relazione positive e feconde fra le persone. Non per ultimo la promozione di una leadership positiva e della gentilezza come driver strategico.
- Che suggerimenti daresti alle aziende che vogliono introdurre la cultura dello smart working?
La prima regola credo sia sempre quella dell’ascolto che si traduce in survey preliminari per capire esigenze e desiderata dei lavoratori e successivamente indagini periodiche per capire come le persone vivono questa nuova “way of working” e poi, dai risultati emersi, ideare eventuali soluzioni migliorative delle policy esistenti.
Il mantra dovrebbe essere la possibilità di scegliere.
Personalmente credo che sia necessario mantenere la politica dell’hybrid working, preservando e garantendo periodicamente e costantemente alcuni momenti di presenza con il proprio team e con i colleghi delle altre divisioni.
Non per ultimo suggerirei di garantire sempre un buon livello di comunicazione scoraggiando quella pratica a mio parere alienante e disumanizzante delle telecamere spente durante le riunioni online.
Almeno fino a quando ancora uno schermo sarà capace di trasmettere le emozioni che passano dagli sguardi.
Grazie mille per aver letto l’intervista!
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A presto.